domenica 30 agosto 2009

Dalla Torre Civica di Ostra all’Empire State Building di New York

di Marco Albani

Da New York riceviamo e pubblichiamo
Approfitto ancora una volta delle pagine di questo periodico per ricollegarmi all’articolo apparso sul numero di maggio, firmato da Alessandro Regini. Come nel suo caso, anche io sto vivendo un’esperienza formativa all’estero grazie al progetto Campus World organizzato dall’Universita’ Politecnica delle Marche. Nel momento in cui scrivo, mi trovo a New York, la citta’ per definizione. Un brulicare continuo di gente, auto, taxi; una serie infinita di avenues e streets; grattacieli come funghi.
Passare dalla Torre Civica di Ostra all’Empire State Building o da Piazza dei Martiri a Times Square non e’ certo facile, ma una volta metabolizzato l’impatto iniziale, svaniscono i timori, le remore, le preoccupazioni e si inizia a scoprire la citta’.
Non posso che confermare quanto scritto dal mio amico Alessandro: “PARTIRE, senza starci a pensare piu’ di tanto, perche’ ne vale la pena fino in fondo”. Vivere all’estero significa mettersi in gioco, allargare i propri orizzonti, conoscere persone con sempre qualcosa di nuovo e diverso da raccontare. Il viaggio permette infatti di misurare la distanza che ci separa dalle realtà sconosciute, e’ capacità di adattamento a situazioni imprevedibili.
New York non rappresenta di certo tutta l’America ma puo’ essere considerata uno spaccato interessante della stessa. Sulla base di quello che ho visto tutti i giorni camminando per i marciapiedi di Manhattan e’ sorto spontaneo un confronto tra l’universo a stelle e strisce e l’Italia. Credo che, sotto certi aspetti, la societa’ americana costituisca un modello di riferimento, in particolar modo nella ricerca della massima efficienza in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Ad esempio, in due mesi ne “La Grande Mela” non ho mai dovuto attendere per il ritardo della metro, di un autobus o di un treno. Per non parlare poi dell’integrazione multietnica: ho notato armonia tra persone di razza, cultura e religione diversa nonché capacità di condividere gli stessi luoghi di lavoro, vita e divertimento.
Infine, cio’ che piu’ mi ha sorpreso e colpito positivamente e’ stata la mentalita’, estremamente aperta e capace di accogliere comportamenti, stili e tendenze di ogni genere.
Non conta da dove vieni, quanti soldi hai, che lavoro fai e come ti vesti. Liberta’ e “think free”, prerogative indispensabili per realizzare qualsiasi obiettivo, progetto, sogno possono essere difficilmente riscontrate nel nostro Paese.
Tante pero’ le contraddizioni e gli aspetti negativi della realta’ statunitense: l’assenza di un sistema sanitario pubblico che costringe milioni di persone a sottoscrivere costosissime assicurazioni mediche, ricchezza e poverta’ a pochi passi di distanza, decisamente troppa fretta e frenesia. Una velocita’ spaventosa che incide negativamente sui rapporti interpersonali: le persone camminano per la loro strada e finiscono per non accorgersi di un conoscente che gli passa accanto. Si tende a sottovalutare il legame con l’altro probabilmente per la miriade di ulteriori opportunita’ che la citta’ riserva: insomma, non c’e’ paura di chiudere una porta perche’ se ne puo’ riaprire subito un’altra. Pregi e difetti che, in definitiva, mi portano comunque a preferire l’Italia, il mio Paese, pur con le sue incoerenze, le sue inefficienze, il suo scarso senso civico. Aspetti che vorrei contribuire a migliorare grazie alle “lezioni” apprese durante questo periodo lontano da casa. Anche perche’, citando Jack Nicholson nel film – Qualcosa e’ cambiato –, “Qui siamo a New York: se ce la fai qui, ce la puoi fare ovunque”.
New York:
Empire
StateBuilding

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